Milano città: abbandonata?
C’erano una volta ragazzi che con un guanto in mano e una mazza sulle spalle uscivano dalla metropolitana di color grigio verdognolo per dare vitalità ad un fazzoletto d’erba schiacciato tra le case alte del quartiere di Lambrate e la ferrovia.
C’era una volta e oggi non c’è più. La burocrazia dello sport di Milano oramai ci ha abituato alla nebulosa comprensione delle sue scelte. Ma qui non parleremo di carte bollate, di incontri con assessori o di file agli sportelli.
No, parliamo di scelte “nostre”, parliamo di visibilità, parliamo di quella visibilità che ora come ora può diventare l’unico biglietto da visita per uno sport che mai come oggi sembra relegato nel dimenticatoio di una città che invece in passato ha fornito delle grandi soddisfazioni al movimento.
Il tutto parte da una cosa che ho potuto notare: nessuno capisce le regole del baseball, nessuno si interessa di baseball, ma tantissimi si fermano alle reti di recinzione per osservare quegli strani guantoni, quelle strane mazze di legno e quello strano gioco visto solo nei film in televisione negli stanchi sabato pomeriggio stravaccati sul divano.
La gente si arresta, ma non si ferma. Questo è il punto. Purtroppo, come già più volte è stato detto su queste pagine, bisogna comunque accontentarsi e continuare quantomeno a stuzzicare l’attenzione dei passanti, dei curiosi, di quei genitori che portano a spasso i figli e si fermano per tentare di spiegare ai bambini ciò che loro avevano imparato magari tanto tempo fa.
E allora quest’occhio lanciato lì, quella curiosità accennata, vogliamo promuoverla?
Premessa: non siamo qui per mettere sul banco degli imputati qualcuno. È però giusto portare alla luce delle piccole e forse insignificanti parti di realtà meneghina.
Siamo chiusi in noi stessi. Che sia il Kennedy, che sia il Saini, la storia è la stessa. Il baseball ha creato i propri feudi praticamente autosufficienti. Si gioca lì, ci si allena lì, lì si allenano anche tutte le giovanili e lì anche se ci sono le ragazze del softball. Addirittura quasi tutte le squadre amatoriali di Milano si concentrano in un solo posto (in quel di Baggio, manco fosse la nuova piazza Duomo).
E allora ecco che un piccolo fazzoletto di terra in quel di Lambrate potrebbe essere una benedizione per un baseball giocato al riparo da occhi indiscreti, occhi che invece potrebbero portare una rivoluzione rionale, di quartiere, insomma dal basso.
C’è bisogno di quei vecchietti con i nipoti che quasi incastravano la testa nella recinzione del Giuriati pur di vedere quello sport che ora sembra ignorato dalla popolazione. Abbiamo bisogno che la porticina del Saini, quella che apre sul parco, sia costantemente aperta durante la partita per permettere ai molti curiosi di sedersi sugli spalti, fare domande, informarsi per eventuali corsi.
Il Milano 1946 dovrebbe non solo schiacciare l’acceleratore della progettualità nella zona estremamente periferica di Baggio. Anche il centro di Milano o le zone a lui limitrofe possono essere parte del futuro del Movimento. Insomma, riprendersi la città e non traslocare sempre di più verso la provincia.
Il baseball dello stivale è nato a Milano. E noi siamo milanesi. Non dimentichiamocelo.
Milano: si stava meglio quando si stava peggio?
Si fa tanto parlare ultimamente delle sorti del movimento. Ovunque si pongono alla sbarra degli imputati i risultati delle ultime mosse del baseball italiano e poi gruppi di scrittori in erba più o meno professionali giudicano il tutto vestititi, come direbbe Fantozzi, con un togone da magistrato ricavato dalla Pina da un vecchio abito vedovile della nonna, parruccone bianco da giudice inglese fatto con lana da materasso, bilancia a due piatti presa in prestito dall'erboristeria all'angolo, mazzuolo batticarne.
Questo non per prendere in giro il pensiero che copioso imperversa sulle pagine di siti e blog. No, questa volta anche i frizzi e i lazzi possono spalancarci alla verità della metafora. Una verità semplice: all’incontro con il Grande Baseball, come il nostro amato Bambocci con la Giustizia, ci presentiamo sì sinceramente infervorati ma alle volte fuori luogo.
Del concetto generale del “fuori luogo” ne avevamo già parlato a proposito del rapporto esistente tra cultura italiana e cultura del Batti E Corri. Ora è arrivato il momento di guardare più precisamente in casa nostra per farsi un po’ i conti in tasca.
Milano è il baseball: un rapporto chiuso dal solo amore meneghino per ciò che succede al Meazza.
Verità?
Mezza verità?
Falsità dietro la quale è comodo trovar riparo?
Bene, ora giochiamo a fare sommariamente (perché ovviamente non abbiamo dati certi) i conti in tasca alle due maggiori realtà di baseball a Milano.
Partiamo dalla corazzata United. Partiamo da quanti (tanti, a quanto pare) soldi servono per navigare nei lidi della A2. Domanda sincera: necessitano?
Perché spendere ingenti somme per rischiare di venir retrocessi o per comunque fermarsi massimo a metà classifica?
Perché spendere ingenti somme per una cosa che è semplicemente un divertimento di sole diciotto partite, delle quali solo nove sono giocate a beneficio del proprio territorio e che al massimo contano una cinquantina di spettatori ad appuntamento?
Con quei soldi spesi e quei risultati una compagnia teatrale, un musicista o qualsiasi altra entità che ha a che fare con il rapporto tra soldi investiti/soldi ricavati/risultato avrebbe quantomeno ridimensionato i propri obiettivi.
Adesso che abbiamo capito che non serve mettere insieme più squadre per rimanere in A2, perché non risparmiare, giocare nella Serie che si può con il minimo sforzo economico e gettare nella squadra i giocatori che da sempre e in tutti gli sport costano di meno, cioè i ragazzi delle giovanili?
Mi si dirà: eh, ma così alla fine retrocediamo.
E io dirò: beh, allora facciamoci ripescare in A2 e continuiamo a spendere soldi senza averne un ritorno.
Stessa storia, con una spesa inferiore, per l’altra parte del naviglio.
L’Ares, accantonando pressioni psicologiche di sopravvivenza in Serie B che oramai vanno avanti da due anni, mettendo da parte la necessità di trovare grandi prospetti per una rinascita, accantonando anche lei la ricerca del pecunio che comunque anche in Serie B viene richiesto, perché non mette insieme una bella squadra competitiva di Serie C (usando anche già la sua formazione di categoria)?
Perché andare avanti a spendere per stare in Serie B e racimolare i risultati che si sono visti fino ad adesso?
Perché non stazionare in Serie C, lavorando sulle giovanili, per poi aspettare il momento propizio (se mai arriverà, sennò pazienza) di fare un salto agonistico ed economico motivato?
In poche parole, perché anche qua a Milano ci sentiamo in dovere di metterci (non solo chi giudica allora) il parruccone della nonna di fantozziana memoria per rincorrere a tutti i costi (e sottolineo “costi”) un ruolo che facciamo fatica a interpretare?
Perché non si torna alla parola “semplicità”? Perché non si tenta di ritornare volontariamente a quella “povertà” che contraddistingueva il movimento meneghino degli inizi?
Perché il grande periodo di Milano (quello del ‘grande senza dover spendere miliardi’, ovviamente) è coinciso con i campetti contesi con le porte di calcio, o dei prati improvvisati tra le vie della città (guarda caso lì il pubblico c’era)?
Forse un ritorno alla povertà ci farebbe bene.
E credo anche, ma non solo, al nostro portafoglio.
Milano: la militanza che fa bene
Ci sono persone che perdono tempo vaticinando la prematura scomparsa del Senago-Milano United (dato morto, per la cronoca, ha vinto il Trofeo Gigi Cameroni, un miracolo evidentemente) e ci sono altre che nel silenzio lavorano per spargere in ogni modo, sul territorio di Milano, il seme della buona novella.
Questo è il caso di molti, ma anche di uno: Giuseppe, nostro carissimo lettore, è riuscito ad introdursi in una discussione aperta da Beppe Severgnini sul Corriere.it e a portare in modo del tutto subliminale l'argomento del baseball alla ribalta (contro lo strapotere italico del calcio).
Eccovi il pezzo:
Caro Beppe,
il discusso doppiaggio dei film stranieri da un lato consente una certa comodità e un qualche fascino alla visione nonché il mantenimento di tutta un’industria specifica, dall’altro lato, con l’impedire l’alternativa della versione originale con sottotitoli, non facilita l’auspicata divulgazione delle lingue straniere, in particolare l’inglese. Un doppiaggio dovrebbe comunque rispecchiare lo spirito intrinseco delle vicende e dei sentimenti trattati, evitando traduzioni troppo letterali, senza nel contempo alterare con arbitrarie libertà aspetti esteriori facenti parte integrante della realtà di sfondo di un film. Uno dei cattivi esempi di tutto ciò è riscontrabile nel film “Matrimonio a quattro mani”, edizione italiana di “It takes two” andata in onda di recente in Tv. La trama della commediola si svolge in un contesto prettamente americano in cui il “national past-time”, il baseball, è presente come sottofondo non di certo irrilevante anche ai fini dello spirito delle vicende e dei sentimenti espressi, con tanto di esplicite correlazioni mediante anche varie inquadrature. Due dei protagonisti, tuttavia, nella versione italiana in più occasioni, per esprimere la loro eccezionale soddisfazione interiore, si paragonano a un attaccante che, superando l’ultimo terzino, batte in modo determinante il portiere avversario nell’ultimo minuto della finale del Campionato del mondo di calcio: peccato che la versione originale parli coerentemente invece di World Series di baseball e di esaltante "fuori campo" al termine dell’ultimo inning della partita decisiva. Non resta che sperare, nell’attuale mondo internazionalizzato, in un doppiaggio che almeno non sia provinciale e all’amatriciana, ma che rispecchi il più possibile l’atmosfera di riferimento senza ricordare un’autarchia che osava chiamare il cognac “arzente” e il cocktail “bevanda arlecchina”, per non dire di testi e titoli musicali, come “Tristezze di San Luigi” al posto di “St. Louis blues".
Voi direte, non c'entra proprio nulla con il baseball a Milano. Vi potrei dare ragione se non che un mare è formato da tante gocce e una è preziosa quanto le altre. Se poi oltretutto è gustosamente subliminale (leggasi, ti parlo di baseball anche in altri ambiti) e simpatica nella sua forma, perchè lamentarsi?
Viva Giuseppe allora.
Viva chi spinge le gocce tentando di fare un mare.
Una Milano che torna sul podio
Un terzo posto che vale oro.
Dopo anni di assenza dai grandi palcoscenici ecco che una formazione targata Milano 1946 è salita sul podio di una finale dal gusto nazionale: le ragazze del softball portano a casa un bronzo che, vista la situazione meneghina, sa veramente d'oro.
Ma vediamo d'entrare nell'azione proprio tramite il racconto del manager (Ozy) che ha guidato la squadra a questo splendido risultato. Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Le Ragazze del softball del Milano 1946 hanno confermato ieri a Sala Baganza il piazzamento raggiunto con i playoff, ottenendo il terzo posto nella sfida finale per lo scudetto 2009 contro Bollate (vincitrice) e Sala Baganza (argento) e superando Nettuno che si è ritirata dalla finalissima. Le partite della giornata di finalissime, giocate in uno splendido impianto con una cucina e un'ospitalità cordiale e efficiente degne della tradizione parmense, hanno visto prima un "cappotto" del Bollate al Sala Baganza (10-0), poi una sfida tiratissima fra le nostre ragazze e il Sala Baganza (un inseguimento da 4 a 0 a 8 a 5), e infine una chiusura fra Bollate e Milano46 vinta dal Bollate 13 a 2.
Il commento tecnico è molto semplice, dopo l'ampia analisi che avevamo fatto dopo le semifinali: la cocciutaggine, la disciplina e la continuità mostrate dalle ragazze del Milano nella fase finale della stagione e nella (tardiva) preparazione di settembre hanno portato a un risultato insperato, mettendo la squadra nelle condizioni di giocare contro compagini che hanno sempre giocato ai massimi livelli.
L'eccezionalità di questo risultato, unico nella storia recente del Milano, va sottolineata ancora una volta, e ne va dato atto alle ragazze. Se c'e' una lezione da trarre (con un pizzico di rammarico) è che il lavoro paga, e che a nessuno che si alleni e voglia vincere è precluso arrivare a un passo dallo scudetto: Bianca, Marzia, Chiara, Alice, Nina, Marta e Maryezis ci sono arrivate. Per arrivare poi a mettersi quello scudetto sulla casacca, ci vuole qualcosa in più. Alle semifinali, mettere la palla nei paraggi del piatto e non sventolare a vuoto i numerosi ball delle lanciatrici avversarie era bastato.
Evidentemente non sarebbe bastato in una finalissima. Arrivati questi livelli, era inevitabile vedere i limiti della nostra squadra: la formazione dei lanciatori e dei ruoli più "tecnici" (catcher, prima base, interbase) richiede un vivaio ampio, una dedizione all'allenamento, e uno staff tecnico che la nostra squadra non aveva a disposizione, e il roster limitato ha costretto a ricorrere all'aiuto dei Ragazzi, bravissimi (bravi e coraggiosi Claudio e Pablo finiti in infermeria, bravi e meno sfortunati Domenico e Guly), ma non addestrati allo "stile softball" (soprattutto: tecnica della rubata, bunt, e velocità dei lanci, che a causa della precocità fisica delle ragazze sono, a quest'età, molto più tesi nel softball che nel baseball. Non temete ragazzi, verso i 14/15 anni vedrete "bombe" così scendere anche dai vostri "monti").
Le due partite della finalissima hanno vissuto di questi limiti: le due-lanciatrici-due del Milano, sempre al limite del numero di inning regolamentare, senza possibilità di rotazione, fra l'altro dimezzate da infortuni e acciacchi (eh, l'età avanzata... oltre alle palline sugli stinchi dai battitori avversari), sono state sovrastate da roster avversari con quattro o cinque lanciatrici disponibili. E l'attacco ha colpito poco (un problema cronico dall'inizio dell'anno) e, in base, non ha avuto le "malizie" di squadre che giocano di più, e giocano sempre e solo a softball, usando quindi di più le rapide partenze sul lancio e l'aiuto dei bunt.
Il solito paio di pasticcetti della difesa (due prese al volo facili uscite dal guanto in seconda e all'esterno sinistro, e un paio di rotolanti che hanno infilato tre difensori... ah, ragazze... quante palle a terra ancora da fare in allenamento!) hanno aggiunto 5 o 6 punti non addebitabili al lanciatore al carniere delle avversarie e, infine, un manager poco familiare con i giocatori "non softball" che usava ha mandato allo sbaraglio un paio di rubate all'inizio della prima partita, e ha poi preferito prendere atto della situazione e scommettere sui battitori, contribuendo a un esito che avrebbe potuto essere forse migliore contro Sala Baganza. Diciamo "avrebbe potuto" e non "poteva": allo stato delle cose, l'esito è stato quel che poteva essere.
"Avrebbe potuto" essere differente se dietro ci "fossero stati" mesi di lavoro diverso, più intenso e più unito, non interrotto dalla lunga pausa estiva, e magati un pochino più sereno e coordinato per i tecnici. E' un avvertimento e un programma per il prossimo anno. Il divario 13 a 2 con Bollate invece era incolmabile, e un'amichevole di allenamento dieci giorni fa (10 a 0) ci aveva avvisati in proposito.
Allora erano mancati anche i due punti "della bandiera", che Sala Baganza non è stata capace di rifilare al Bollate, e dei quali invece noi stavolta possiamo essere fieri, grazie a Marzia, Chiara, Pablo e Maryezis, che in una rapida sequenza di toccate e corse azzeccate al terzo inning hanno mostrato la bandiera ai forti avversari, impendendo che una partita segnata da 13 k su 21 battitori diventasse una passeggiata come era stata Bollate/SalaBaganza (sei k consecutivi, una sola base ball, una sola valida in una partita delle giovanili? Ouch... D'accordo, d'accordo, la lanciatrice partente e il rilievo erano le due ragazze scelte per la Nazionale lombarda, poi Italiana, poi Emea,che ha disputato le World Series Under 13 in agosto arrivando quinta nel MONDO. Battitori che hanno preso un K, vi sentite meglio, adesso? Lo avete preso da due delle 20 migliori lanciatrici under 13 del pianeta).
Quindi, in sintesi: tanto di cappello alle ragazze e ai ragazzi del Milano46 che hanno disputato questa finalissima e tirata d'orecchi a chi sabato sera si è mostrato deluso.
impossibile non citare con immensa gratitudine Clemente Alvarez, che per tutta la primavera ha "aggiunto una marcia" ai battitori e agli interni, non potendo intervenire sui lanciatori vista la sua squisita formazione baseball.
Oggi, per le ragazze è una vittoria, per tecnici dirigenti e genitori è occasione per riflettere.
Su se stessi.
Agli italiani non piace il baseball
Fallimento di pubblico, sogni infranti, rabbia e forse anche disperazione. Questi sentimenti sembrano affollare il poco spazio mediatico dedicato al baseball. C’è chi azzarda analisi tecniche, c’è chi invece vorrebbe prendere la Federazione e ribaltarla come un calzino.
La saggezza però ci viene dal puntare verso il basso e questa volta non ce ne dobbiamo vergognare: ascoltiamo le voci di chi vicino a noi guarda con sospetto il nostro sport, leggiamo tra le righe dei commenti che da anni siamo obbligati con tanta pazienza a sopportare.
“Baseball, gioco lento, gioco lungo, non m’interessa”. Lo Stivale sentenzia e lo Stivale incredibilmente ha ragione. O meglio, ha ragione in quanto stivale, ma ha torto a condannare in modo assoluto quello che comunque rimane uno degli sport più praticati al mondo.
Ma qua le cose sono diverse, anche se sarebbe utile andare a osservare con attenzione, prima di tutto, l’erba del vicino che sembra naturalmente più verde: scopriremo che di spontaneo c’è ben poco e il successo del baseball negli States è più figlio di un processo sociale che di un’opera di sapiente marketing.
Noi non siamo e non saremo mai (anche sforzandoci) gli Stati Uniti. Bella scoperta, ma questo in concreto cosa comporta? Analizziamolo a spanne (infondo nessuno di noi è laureato in sociologia).
Il popolo dello Stivale è geneticamente “slow”. Lo è nella cucina tanto quanto nel lavoro, nella famiglia (si esce di casa a trenta anni) quanto nelle tradizioni. Questo comporta un’inversione di tendenza nello sfogo del tempo libero: agli italiani piacciono le cose veloci, secche, poco ragionate e possibilmente risolutive.
Noi siamo quelli di Bartali o Coppi a sfida unica (questi due campioni battagliavano solo durante i Giri, mica ogni giorno, una formula che avrebbe fatto disaffezionare anche i più grandi appassionati di ciclismo).
Noi siamo quelli della marea di laureati in materie umanistiche e che non possono tollerare uno sport che si basa a metà su considerazioni puramente statistiche aritmetiche (che piaccia o no a chi invece pensa che il baseball sia solo battere una palla e correre verso una base) e per l’altra metà su un regolamento difficile da digerire per chi non mostra un minimo d’intelligenza matematica.
Noi siamo quelli dell’umiliazione secca: per noi o è rosso o è nero (e uno dei due deve perdere subito), i nostri Governi non potrebbero mai collaborare con una formula di coalizione. A noi poi piace infervorarci nel momento (la campagna elettorale) per poi perderci nel cronico disinteresse durante l’anno (figuriamo se riuscissimo a seguire centosessanta partite consecutive).
E questo è solo un assaggio. Un assaggio che però non ci deve far credere d’essere migliori o peggiori di altri, siamo semplicemente “diversi”.
Al contrario nell’America settentrionale la vita pare completamente ribaltata: si passa la giornata nel nome del “fast”. È veloce il pranzo, è veloce la cena, sono veloci le dinamiche di lavoro, è veloce pure la vita in famiglia (matrimoni e divorzi compresi), è veloce pure lavare la macchina e addirittura votare.
Questo spiega perché un popolo così fulmineo potesse eleggere uno sport lento a passatempo nazionale: il baseball rallenta la stressante vita americana (infondo, anche loro, ci mettono nove mesi a nascere) donando una benedizione, un piacevole sollievo (per contrasto) a gambe sempre in movimento, a mani sempre pronte a rispondere a cellulari e a stomaci campioni di allargamento per fare spazio (guarda caso) a pietanze già pronte in soli cinque minuti (mancasse che si perda tempo anche in cucina).
Il baseball là, tra una birra e un cane caldo, umanizza l’umano, rallentandolo.
Il baseball qua, tra uno sbadiglio e un pisolino, stona alla grande.
Che piaccia o meno.
venerdì 2 ottobre 2009
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5 commenti:
bel punto di vista.. ma allora qual'è il segreto dei sudamericani?
Lì, secondo me, sempre in maniera "opinionesca" (leggasi, non sono un sociologo) gioca un duplice fattore:
1)Il voler emulare (inconsciamente) ciò che fanno coloro che sono visti come i modelli assoluti da seguire e da copiare (gli USA). Non per niente come non negare che i sudamericani siano da sempre affascinati dalle mode nordamericane (pensa al rap, all'oversize clothing, al gangsta style), in più una volta m'è stato detto che molta immigrazione da quelle terre nel nostro continente è dovuta all'impossibilità prima di tutto (o alla maggior difficoltà) d'ottenere la Carta Verde. Quindi propendono per l'Europa, ma il loro sogno, il loro amore, rimane scritto in un futuro come statunitensi tra gli statunitensi (in poche parole l'Europa è solo un ripiego).
2)In centro/sudamerica la partita, più che una partita, è una festa, un momento di unità comunitaria, d'appartenenza (anche nella divisione tra tifoserie). Una cosa che qua in Italia sarebbe inconcepibile: allo stadio si va per vedere la partita, mal si tollerano le coreografie rumorose, pirotecniche delle curve. A noi piace il seggiolino spolverato, il vicino non tabagista e se possibile anche "conosciuto" (sia mai che si allargassero le nostre impaurite quattro mura più mentali che domestiche).
In tutto questo, invece, sarebbe bello capire cosa lega gli appassionati asiatici a questo sport.
Forse un appassionato o uno studioso di quelle culture potrebbe raccontarci molto.
OK! Detto tutto questo, cosa ne facciamo? Spegniamo tutto? Ce lo teniamo così com'è? Quali sono le possibili prospettive? Qualcuno con un minimo di "potere" e "competenza" ce lo abbiamo ancora tra quelli con più esperienza di Baseball e "managerialità" o possiamo dichiarare ufficialmente morto il Baseball in Italia?
Sembrerà una stupidata, ma forse è proprio vero che bisogna, per construire, o ricostruire, partire dal basso.
Per portare un esempio, a parte i successi internazionali dei '90, il baseball a Milano aveva seguito nei primi decenni del baseball proprio intercettando gli occhi di un semplice quartiere (in quel caso Lambrate).
La gente vedeva (probabilmente) i ragazzi impegnati in quello strano sport, s'erano affezionati pure a quello che stava accovacciato facendo il "purter" (in milanese "portiere"...era il grande Gigi Cameroni).
Era uno sport nato sui prati delle vie cittadine, dal basso del "rione", senza pretese (hanno giocato per decenni su campi da calcio riadattati, su panche di legno senza riparo dal sole)...
Ecco, poi (almeno posso immaginare) sia arrivato il momento di lasciare il "proviamo a farlo" per impegnarsi nel "facciamolo come negli States"...ed ecco che si arrivò ben presto a oggi.
Costruiamo stadi per metterci dentro poca gente...organizziamo, facciamo e disfiamo...e lo facciamo sempre per noi, per sentirci allineati alla nostra passione.
Dimentichiamo che la nostra passione però non è come la pittura o l'arte che può essere autoreferenziale ("lo faccio per me"), ma rientra nelle discipline sportive che, prima di tutto, sono un veicolo per unire l'uomo con i suoi simili.
Si gioca non soltanto per battere una palla e vincere lo scudetto: si gioca perchè lo sport è un momento dove esco dalla mia vita e incontro la vita altrui.
Questa è la lezione americana e centro/sudamericana: la partita è solo il centro di un vortice che mescola umanità (dal bere birra al tentare di prendere la palla in foul per ricevere l'ovazione, dal cantare al settimo inning la canzone, fino alle feste tra cori e canti caraibici).
Il baseball, sotto un certo punto di vista, non è uno sport, è vita.
Chi ha saputo capirlo l'ha piantato rigogliosamente nel proprio paese, chi invece s'è fermato alla mera "pratica sportiva" ha (secondo me) sbagliato e ne paga le conseguenze.
Sono perfettamente d'accordo con Francesco, specialmente con quanto rimarcato nell'ultimo commento.
Aggiungo che il baseball non può essere imposto come sport spettacolo, perché non è un vero e proprio sport, ma qualcosa di più (è piuttosto una "disciplina morale" con risvolti ludici) che deve essere assimilata preventivamente per poter essere apprezzata poi anche come sport ed eventualmente dopo come sport spettacolo. Tanto più l'assimilazione sarà adeguata, tanto più il risultato finale dell'apprezzamento sarà soddisfacente.
L'assimilazione dovrebbe avvenire mediante una conoscenza di tale disciplina che abbracci tutti i suoi aspetti, soprattutto la sua stessa pratica: soltanto avendo esperienza di un coinvolgimento anche minimo nell'attività pratica di gioco (possibilmente in modo diretto, a qualsiasi livello, o almeno seguendo per esempio l'attività di qualche figlio) il baseball può essere apprezzato appieno. Per questo motivo è di fondamentale importanza l'attività giovanile che, oltre a fornire un'eccezionale formazione ai diretti interessati, possa coinvolgere tutta una famiglia, magari in un qualche modo attraverso la pratica diretta di tutti i suoi componenti. Soltanto così è possibile uno sviluppo concreto del movimento che dovrebbe articolarsi puntando in sostanza soprattutto su forme amatoriali che cementino le fondamenta. A tutto questo dovrebbe seguire un'azione rivolta a creare quell'alone di contorno e di colore che contribusca a rafforzarne gli entusiasmi, non dimenticando di puntare anche sulla "mitizzazione" di tutta una propria storia che, ormai, ha radici anche nazionali atte ad alimentare lo spirito della disciplina stessa.
Insomma, data la particolarità del "prodotto" non è possibile sfondare proponendolo con un marketing semplicistico che pretenda di imporsi con uno spettacolo del quale si può benissimo prevederne l'iniziale scarsa appetibilità. Occorre piuttosto innanzitutto concretizzare una "cultura" pratica e, in secondo luogo, teorica che sia variegata, al fine di creare quelle basi necessarie al possibile successivo passo che renda il baseball anche un vero sport e anche uno sport da spettacolo, intendendo questi termini nell'attuale senso comune, con tutti i relativi e conseguenti contorni che siano eventualmente in un certo senso analoghi a quelli attualmente presenti nell'ambito sportivo e sociale.
Il baseball, oltretutto, potrebbe dare poi, anche in tale forma "evoluta" un contributo di tipo etico: altri sport che attualmente vanno per la maggiore dal punto di vista sociale si basano sulla "chiacchera", in quanto ogni loro situazione di base è sempre opinabile, mentre ogni azione del baseball è sempre determinante e mai interlucotoria né ambigua, né aleatoria: ogni errore o scorrettezza, oppure ogni prodezza, è sempre ben individuabile e sempre attribuibile a responsabilità individuali precise e inequivocabili. Di conseguenza, i corrispettivi commenti sarebbero necessariamente improntati in modo altrettanto serio e corretto, con notevoli vantaggi anche sociali.
Questi sono tutti argomenti che andrebbero approfonditi il più possibile: il materiale sul quale ragionare è quantitativamente e qualitativamente enorme.
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